Maso Fior di Bosco, eccellenza in Val Floriana.
Che cos’è Maso Fior di Bosco?
Maso Fior di Bosco è un progetto nato tanti anni fa per concretizzare la nostra esperienza nel campo dell’allevamento, in particolare della razza Grigio Alpina.
Fin da quando ero piccolo, durante l’estate la mia famiglia gestiva l’alpeggio a Malga Sassa, a 2000 metri, dove portavamo le bestie dei tanti contadini della zona ma anche della zona dell’Alto Adige. Ricordo ancora la mia nonna che faceva la polenta e la serviva anche a chi passava di lì… una sorta di agriturismo ante litteram! Una piccola azienda agricola, insomma, che trasformava i suoi prodotti e li faceva assaggiare al pubblico.
Attorno agli anni ‘90, poi, a seguito di un tremendo incendio doloso, il Comune si è fatto carico di ricostruire questa malga.
La nuova struttura è diventata la prima malga in tutto il Trentino con l’ospitalità, unendo il caseificio, lo spazio per la trasformazione del prodotto, il punto vendita e alcuni posti letto. Un passo importante negli anni ‘90. Non è stato facile. Io ero un giovane agricoltore-imprenditore e conobbi Isabella, mia moglie, allora mia dipendente. I contributi previdenziali costavano troppo e quindi, nel 1994, ho pensato di sposarla. Assieme alla cognata e alla sua famiglia abbiamo lanciato questa nuova proposta.
Volevo qualcosa di più e, appena dopo il matrimonio, ho portato mia moglie in località Comuni e facendole vedere il posto le ho raccontato il mio sogno di trasformarlo in una stalla con agriturismo, caseificio e ristorante.
“Con quali soldi?” è stata la sua pronta reazione. Con i nostri risparmi, 1 milione e 200 mila lire, abbiamo acquistato 1000 metri di terreno con l’intento di costruirci un Maso tutto nostro, dove vivere tutto l’anno, e sebbene le difficoltà iniziali siamo riusciti nella nostra impresa.
Se guardi bene, sulla facciata della casa è scritto a grandi lettere il nostro slogan: “L’erba più buona non cresce sulla strada maestra”, e questa in sintesi è proprio la nostra filosofia.
La concretizzazione del progetto inizia con la realizzazione della stalla, alla quale successivamente viene aggiunto il caseificio. Mi sentivo un pioniere perché ero tra i primi a trasformare il proprio latte in autonomia. Nello stesso anno, il 1998, oltre a questa prima fase del progetto vede la luce anche mio figlio Emil.
La gioia per il figlio si mescolava con la soddisfazione legata al lavoro. Finalmente le nostre Grigie potevano stare in una struttura moderna. Poi piano piano il nostro progetto cresceva e sono arrivati il caseificio, il punto vendita, il ristorante e la parte dedicata all’ospitalità.
Il nostro è un Maso, e il nome deriva dal latino mansum cioè restare, rimanere. Si tratta infatti di un presidio territoriale molto forte ma la nostra idea era quella che questo maso fosse aperto, con il concetto della filiera corta della razza Grigio Alpina, dalla produzione alla vendita, dal consumo all’ospitalità, tutto rigorosamente con metodo biologico.
In tutto questo come descriveresti la tua figura di imprenditore?
Ho finito l’Istituto Agrario nel 1987, e in quegli anni in Trentino si rincorreva la politica agricola della pianura padana, quella dei grandi numeri. Io personalmente pensavo a qualcosa che sapesse mescolare la tradizione e l’innovazione, tra Heidi e futuro insomma!
Ero un imprenditore un po’ anarchico, controcorrente rispetto alle politiche agrarie vigenti in quel periodo e il mio approccio con il tempo si è poi rivelato vincente, e le realtà simili alla mia nate negli anni successivi lo dimostrano.
Considerando le numerose attività che mi trovo a svolgere mi sento molte cose, un po’ imprenditore, un po’ innovatore e molto spesso Oste, come te. Anche se io sono un oste di montagna!
Hai parlato di tuo figlio Emil. Come ha vissuto il vivere in un’azienda e lo stare così distante dall’ambiente tipico dei giovani della sua età?
Mio figlio Emil è cresciuto in azienda e ha visto i sacrifici che abbiamo fatto per crearla. Ha vissuto le difficoltà e compreso l’idea di investire in un posto come questo che qualcuno aveva definito “cattedrale nel deserto”. Questo gli ha fatto capire l’importanza di non mollare mai davanti agli ostacoli. Autonomamente ha poi deciso di frequentare una scuola di formazione per la cucina, a Merano, e di entrare nella società aziendale con un ruolo ben preciso. Io non posso che esserne onorato e condividere con mio figlio una passione è una soddisfazione davvero indescrivibile.
Che cos’è per te un buon formaggio?
Un buon formaggio deve essere di qualità. La cosa potrebbe sembrare scontata ma un buon prodotto è quello in grado di raccontare una storia. Adoro l’idea di un formaggio che nasce in questo Maso attraverso il nostro allevamento, secondo una filosofia e uno stile di vita di una famiglia che porta avanti la propria tradizione.
Qualità è anche innovazione, è sapersi confrontare con il tempo, è controllare il sistema igienico-sanitario del prodotto, è conoscere l’origine del prodotto. E qui al Maso il percorso di produzione è visibile in ogni passaggio e nel momento in cui si assaggia il prodotto si possono cogliere tutti i dettagli del lavoro, del sacrificio, dell’amore che ci mettiamo, ogni giorno.
Nel nostro lavoro è fondamentale poter contare su persone come te, che diventano ambasciatori dei nostri prodotti, della nostra filosofia, della nostra storia. Non puntiamo ai grandi numeri, ma cerchiamo le piccole realtà, come la nostra, quelle attente ai dettagli, alla qualità. Persone appassionate che ci consentono di confrontarci, migliorarci e crescere sempre.
Quali tipi di latte e formaggi produci? E in quali stagioni?
I nostri formaggi seguono precisi momenti e stagioni. Quello più conosciuto è il NOS, che significa “nostro” in dialetto. Abbiamo poi diverse caciotte e prodotti che ci permettono di giocare un po’ con i prodotti del Maso e gli affinamenti nei fiori e nel fieno. Abbiamo creato anche uno spalmabile, un qualcosa di innovativo e fresco che possa andare incontro ai nuovi gusti della clientela. Cerchiamo di accontentare i palati più delicati ma anche quelli che cercano gusti più decisi. Spediamo in tutt’Italia e curiamo molto anche il packaging.
Cosa significa al giorno d’oggi gestire un’attività di questo tipo? E, soprattutto, quali sono le principali criticità che puoi incontrare?
La nostra forza è essere una famiglia e, non avendo mai i grandi numeri, riusciamo a gestire l’attività in scioltezza. La criticità a volte è legata al reperire il personale necessario alla gestione, al doversi confrontare con normative rigide che poco si adattano alle esigenze di una realtà piccola come la nostra, nella quale lavoriamo unicamente la nostra materia prima.
Spesso si parla di cambiamento climatico. Quali effetti negativi ha sulla produzione del prodotto?
Il clima è cambiato, i temporali improvvisi e violenti degli ultimi anni sono cosa nuova per chi come me ha iniziato tanti anni fa il lavoro con la natura. Sono nato e cresciuto qui, ho 52 anni, ma solo di recente ho visto cambiamenti così forti, e ogni tanto, lo ammetto, mi spaventano. Abbiamo purtroppo tutti ancora molto vivo il ricordo di Vaia, che ha colpito anche le nostre zone.
Il caldo?
Siamo a 1300 di altezza, ma gli effetti del caldo si sentono anche quassù. Stiamo cercando di recuperare le sorgenti vicino al maso, centellinando le risorse idriche; siamo riusciti a fare un’opera di bonifica di recupero, grazie ad una speciale concessione, per innaffiare i pascoli.
Caro bollette, Covid, cambiamenti vari… cosa succederà in un futuro?
Oltre al progetto riguardante il recupero dell’acqua, abbiamo realizzato già quindici anni fa un impianto fotovoltaico che ci dà un buon supporto pur non coprendo interamente il nostro fabbisogno. Per il riscaldamento usiamo la massa legnosa dei nostri boschi, in linea con l’idea del maso sostenibile.
Quindi siete un’azienda che può reggere il colpo perché è praticamente autonoma?
Quest’anno abbiamo dovuto fare un aumento di prezzi, anche se non tutti l’hanno accolto bene e non tutti ne hanno compreso le ragioni. Ci abbiamo pensato molto, facendo un’attenta analisi dei costi. Ma in una struttura piccola e autonoma come la nostra non è stato difficile da applicare, rispetto a grandi realtà cooperative dove il tutto va suddiviso tra i soci all’interno di un mercato ben più ampio.
Le strutture non autonome sono destinate a soffrire?
Quei modelli di strutture che ho citato prima, dove sono stati fatti grossi investimenti senza un mercato abbastanza solito dove poter vendere, saranno in grossa difficoltà nel prossimo futuro.
È chiaro che i passaggi che noi abbiamo fatto in questi anni non sono facili da attuare. Fare un agriturismo di qualità è difficile, devi essere agricoltore, albergatore, imprenditore, tutto insieme.
Al Pettirosso amo tradire la tradizione con un pizzico di fantasia, tu lo fai nella produzione dei formaggi? Vi è un po’ di mix tra tradizione e innovazione? E come riesci a mantenere l’equilibrio?
Assolutamente! I grandi chef la chiamano “contaminazione”. Spesso lo fa anche mio figlio quando pensa ad un nuovo menù. Credo sia giusto portare avanti la cucina della tradizione con la polenta, i crauti, la lucanica e i canederli; ma qui al casello facciamo anche innovazione, per poter essere sempre più accattivanti.
In questo momento mi viene in mente la nostra caciotta a forma di cuore con la polvere di lamponi liofilizzata, confezionata all’interno di un bellissimo cofanetto, un’idea regalo davvero apprezzata. Ecco, questo è uno dei nostri modi per tradire la tradizione, mescolando storia e novità.
Ti piacerebbe riproporre qualche formaggio finito nel dimenticatoio?
Abbiamo fatto il “Casat”, la formaggella che si faceva nella Valfloriana, il cui nome deriva da “Casata” (la frazione capoluogo). In passato queste formaggelle venivano fatte direttamente nelle case; si tratta di un formaggio fresco, ricco di carotene e molto digeribile. Per i bambini era un alimento fantastico e poi c’è da dire che parliamo di tempi in cui l’alimentazione non era né ricca né tanto meno variegata.
Nel passato qui la gente era povera, ma per fortuna non ha mai patito la fame. La stessa Grigia Alpina dava contemporaneamente latte, carne e lavoro e manteneva moltissime piccole famiglie qui nel nostro territorio.
Cosa cambieresti del tuo lavoro?
La domanda più corretta sarebbe “cosa ho cambiato”. Sono partito con dei grandi sogni e poi, un po ‘ alla volta, ho trovato la strada giusta per farli diventare realtà.
In mezzo ci sono molta esperienza, numerosi errori di quelli che insegnano e fortunatamente anche tantissime soddisfazioni personali e familiari.
Onestamente, di tutto questo non cambierei nulla e, anzi, spero arrivino altre esperienze che ci consentano di crescere in maniera positiva.
La domanda che fanno più spesso al tavolo quando serviamo i formaggi è “ma la crosta si mangia?”
Il formaggio deve assolutamente essere servito con la crosta, che lo identifica;purtroppo troppo spesso nei ristoranti questo non avviene. La crosta deve necessariamente essere pulita da noi produttori, deve essere sana ma è quella che rappresenta al meglio l’identità del formaggio stesso.
Personalmente quella dei miei formaggi la mangio ma in questo caso è a libera discrezione.
Cosa significa latte crudo e come si ottiene un latte adatto a questo tipo di lavorazione?
Il latte crudo è l’ingrediente fondamentale in un’attività come la nostra. Slow Food sull’argomento è stato fondamentale, ci ha aiutato con i legislatori affinché aziende come la nostra potessero utilizzarlo.
Ma bisogna essere molto strutturati. L’allevamento deve essere sano, come la stessa alimentazione delle bestie e l’ambiente di lavorazione deve essere perfettamente pulito. Ciò permette di ottenere un grandissimo prodotto, molto identitario. Se si pastorizza il latte, si perdono quelle che sono le sue più importanti caratteristiche. Le grandi aziende hanno fatto una importante battaglia per far sì che le aziende come le nostre non lo potessero utilizzare, portandone tante inesorabilmente alla chiusura.
In poche parole il latte crudo ti permette di mantenere inalterate le qualità organolettiche, i suoi profumi, sapori e sentori.
Ci sono razze di bovino che sono più idonee a questo tipo di lavorazione?
La Grigia Alpina si presta molto. Stiamo portando avanti uno studio con l’Istituto Zooprofilattico delle Venezie affinchè si possano analizzare alcuni prodotti realizzati con la Grigia perché si è visto che queste razze autoctone trasmettono ai prodotti delle caratteristiche davvero particolari.
Consiglieresti ad un giovane di fare questo lavoro?
Si, precisando però che serve la giusta dose di entusiasmo.
Essere imprenditori, seguendo una specifica filosofia, non è facile perché bisogna essere preparati, correre anche qualche rischio, saper fare qualche investimento e avere una visione chiara. È bello sapere che i giovani hanno voglia di tornare alla terra, ma fare il contadino e l’allevatore non è solo raccogliere l’insalata per poi venderla al mercato. Dietro c’è un mondo complesso, strutturato, fatto, sì, di soddisfazioni, ma anche di sacrifici.
Senza dubbio consiglierei ai giovani di intraprendere determinati studi, come ad esempio l’Istituto Agrario, che sforna figure di cui le aziende come la nostra hanno estremo bisogno. Lavorare in una stalla significa alzarsi all’alba tutti i santi giorni, fare il cuoco significa stare in cucina quando gli altri sono a tavola, l’aria bucolica può attrarre ma c’è anche il risvolto della medaglia di questi lavori e va tenuto bene in mente quando si sceglie di intraprendere certe strade.
A parte i tuoi formaggi, ce n’è uno che ti piace in modo particolare?
Io amo tantissimo i formaggi e credo fermamente che sia uno degli alimenti più interessanti e particolari che abbiamo, grazie a tutte le forme che può assumere. Abbiamo la fortuna in Italia di avere un patrimonio di formaggi enorme. Sono pochi i ristoratori che propongono un piatto di formaggi di qualità al tavolo e pochi i consumatori che lo saprebbero apprezzare al meglio. Abbiamo delle incredibili produzioni nel mondo slow food che parlano di territorio, razze, stagionature, metodi di produzione, ecc.
Personalmente adoro il gorgonzola e il caciocavallo. A livello mondiale credo che siamo i migliori. I nostri vicini francesi se la tirano con i Camembert e gli altri formaggi molli, ma non si avvicinano nemmeno alla straordinarietà del nostro panorama.
Non hai un formaggio del cuore che vorresti fare anche tu qui?
Mi piacerebbe fare un formaggio tipo gorgonzola ma non ho la struttura per poterlo fare.
Quello degli erborinati rimane per ora ancora solo un sogno nel cassetto.
Ogni tanto nascondo qualche forma di formaggio per poi assaporarla assieme a qualche amico, come un grande vino, che più passa il tempo più migliora. Lo lascio lì in cantina, con la data “di nascita” incisa sulla crosta, e poi lo ammiro, lo giro, lo pulisco in attesa di tagliarlo e degustarlo con pochi intimi amici che ne sanno apprezzare come me la qualità. Sono piccole produzioni che non fanno per nulla il cosiddetto business ma servono per consolidare le amicizie, proprio come il vino.
Mi ricordo ancora quando tantissimi anni fa, nella chiesa sconsacrata di Bra, aprii una forma di formaggio di 4 anni in compagnia di Petrini… non sapevo cosa avrei trovato ma ero sicuro del mio operato dunque ero pronto a rischiare. Petrini la alza, la annusa e poi esclama ‘’è ancora viva’!’.
È stato un momento davvero epico. A dimostrazione del fatto che fare grandi formaggi significa fare grandi sacrifici ma anche metterci grande passione e vivere grandi emozioni!