2 Febbraio 2022

AZ. AGR. FORADORI, IL NATURALE FUTURO DEL TEROLDEGO

AZ. AGR. FORADORI, IL NATURALE FUTURO DEL TEROLDEGO

 

Sono tornato in Piana Rotaliana, una zona che ho recentemente riscoperto con piacere e dove ho trovato un gruppo unito di piccoli viticoltori che insieme vogliono portare avanti un progetto ambizioso sul futuro del Teroldego.

Ho incontrato Emilio Foradori, figlio di Elisabetta, storica produttrice di Mezzolombardo e colei che, merito della sua lungimiranza e visione, ha fatto conoscere il Teroldego anche oltre i confini trentini.

Con Emilio ho parlato del futuro di questo vitigno. E’ figlio di quella che personalmente considero una visionaria, una donna che ha saputo credere in un suo personale progetto aziendale e che, con grande coraggio e fiducia, lo ha tramandato lasciandolo in eredità ai figli.

Sarà compito loro seguire la strada indicata, sono sicuro che lo faranno con determinazione e grandi capacità applicando quanto, dalla grande mamma e maestra di vita, hanno imparato.

 

 

 

Ciao, Emilio! Sei subentrato nell’azienda di famiglia, al posto di mamma, ti ha lasciato in eredità un percorso senza dubbio importante. Non ti sei mai messo in mostra, per questo ci racconti qualcosa di te? 

Ciao. Grazie per questo spazio. Finite le superiori, mamma ci ha consigliato di non studiare enologia, spiegando che avremmo potuto farlo successivamente.

Sono sempre stato molto interessato alla filosofia e sulla base di questa passione mi sono trasferito a Tübingen, vicino a Stoccarda, dove mi sono laureato in questa antica disciplina.

Durante gli studi però mi mancava un po’ la parte manuale. A onor del vero, non siamo la classica famiglia di viticoltori che vive sempre nell’azienda; da bambini davamo semplicemente una mano durante la vendemmia ma nulla di più. Ad un certo punto però ho sentito molto forte il desiderio di fare cose più manuali quindi, parallelamente allo studio, iniziai a lavorare.

Ho lavorato in Francia, ho avuto l’occasione di andare a Bordeaux dove ho collaborato un anno con un’azienda di comunicazione, poi però ho deciso che il vino era la mia strada.

Ho studiato Wine management a Montpellier, ho fatto esperienza in Patagonia e soprattutto a Montalcino. Nel 2013 sono tornato a casa e i primi due anni li ho dedicati alla campagna.

Nel 2013 mi hanno affidato le chiavi dell’azienda e posso dire che quell’anno è stato ufficialmente quello della mia prima vendemmia.

Per due anni ho fatto un “copia incolla” ma dal 2015, armandomi di coraggio, ho iniziato a lasciare la mia impronta in quello che facevo.

Ancora oggi in azienda c’è un’immagine di Elisabetta Foradori molto forte anche se, di fatto, non fa più vino dal 2013. Da tre anni non è più operativa e dal 2015 è mio fratello che si occupa della parte commerciale e della comunicazione.

E’ stata una vera pioniera della biodinamica nel mondo del vino trentino, fin dal 2002. Ad oggi la visione aziendale, così come il vissuto concreto, è quella di non produrre solo vino ed è proprio per questo che abbiamo introdotto anche gli ortaggi e i formaggi. Questo è il nostro presente ma allo stesso tempo la nostra visione per il futuro, un progetto che stiamo lentamente sviluppando nella zona di Brentonico.

 

Al giorno d’oggi, parlando con i grandi esperti, ci sono mille modi per definire un vino: biologico, biodinamico, naturale, ecc. Come definiresti i vini prodotti da te in azienda? 

Io li definirei vini “vivi”. Sono vini che provengono da un’uva sana, vitale, che vengono trasformati, per poi continuare la loro vita in bottiglia. Lavorare con le cose vive non è semplice e l’uva non vuole diventare vino perché subisce un processo di decomposizione. Non è semplice e, soprattutto, non sempre il vino nasce perfetto. Di fatto siamo certificati come azienda biodinamica in tutti i sensi, siamo anche certificati “BIO”, rientriamo quindi nella categoria dei biologici e veniamo etichettati spesso come vini naturali. Personalmente preferisco definire i nostri vini “vivi” perché rispecchiano la vitalità della nostra uva e la sanno trasmettere poi anche a chi li beve.

 

Qual è stato il motivo per cui, nel lontano 2002, a mamma è nata la decisione di fare questo cambiamento così importante? 

E’ una persona che si è sempre messa in discussione. Ha avuto molto coraggio ed è un’importante caratteristica che ha trasmesso a noi figli.

Il vero motivo che l’ha spinta al cambiamento è stata forse la stanchezza. All’inizio c’era anche mio padre, che ha saputo dare senza dubbio molti input; il Granato, per esempio, è una loro creazione.

Le loro strade si sono poi divise e lei ha avuto la lungimiranza e la forza imprenditoriale per portare avanti il progetto. Negli anni ‘90 ha avuto successo producendo vini strutturati e sinceri, ma poi si è stufata, anche perché aveva raggiunto il suo obiettivo e con i mezzi che aveva a disposizione non poteva andare oltre.

All’inizio degli anni 2000 ha partecipato ad una conferenza di Nicholas Joly e di Mark Kreydenweiss, viticoltore alsaziano e padre della viticultura biodinamica francese insieme a Joly. Per lei è stato un momento illuminante che l’ha portata ad un cambio di vita poiché ha visto realmente i cambiamenti che avvengono in un campo.

Per dare un’idea, in un campo biodinamico trovi circa 70 specie di graminacee, in un campo convenzionale ne conti una decina. È stata una differenza che l’ha fatta riflettere molto, al tempo nessuno faceva biodinamica su così larga scala, è stato un investimento azzardato e senza grandi mezzi.

 

Qual’è il vino che più rappresenta questo cambiamento? 

Da un lato c’è il cambiamento in campagna, visivo e più semplice da attuare, mentre dall’altro c’è il cambiamento del vino: le due cose non vanno di pari passo. Fino al 2007 per produrre il nostro vino si faceva uso di lieviti selezionati seguendo le buone pratiche enologiche, ma già nell’annata 2005 abbiamo iniziato a sperimentare formazioni spontanee.

Il vino che marca il vero cambiamento è un vino nuovo, la Nosiola.

Nasce nel 2009 a Fontanasanta, una vecchia vigna che poi lei ha interpretato in uno stile completamente diverso.

 

La clientela come ha preso questo cambiamento? 

Abbiamo cambiato l’ottanta per cento degli importatori.

Ora il nostro mercato è diviso in due: vendiamo per il 70% all’estero e per il 30% in Italia. All’estero il cambio lo si è visto in maniera molto più netta, con la necessità di una nuova comunicazione perché per vendere i nostri vini è necessario raccontare e trasmettere la nostra filosofia. In Italia il discorso è stato diverso perché comunque l’immagine e il valore dell’azienda sono rimasti immutati. Nel mercato locale abbiamo incontrato anche tanta incomprensione ma la richiesta è sempre stata fortunatamente alta.

 

Ho di recente inserito un concetto in osteria, Tradizione Trentina Tradita, per la quale rielaboriamo le ricette tipiche trentine, come per esempio quella del canederlo, mescolando innovazione e tradizione.

C’è un vino Foradori che secondo te “tradisce” la tradizione?  

Il Pinot Grigio in primis. Nasce negli anni ‘70 a Santa Margherita, un vino più che standardizzato, senza colore e sapore. Le mie prove di macerazione mi hanno portato a produrre un vino in anfora, con colore, tannino ed emozioni. Esattamente l’opposto di quello tradizionale.

L’altro “traditore” è il Lezer. Un Teroldego leggero, sia per il colore, che è quasi rosato, che per la sua leggerezza di beva.

Lo bevi e non pensi.

 

Quanti anni avevi quando in azienda si è deciso di intraprendere la strada della biodinamica? Come hai visto il cambiamento? 

All’epoca avevo solo 14 anni e sicuramente ho vissuto il cambiamento in modo consapevole e cosciente solo ad un’età maggiore, nel 2004. All’inizio ero quasi uno spettatore, da lontano, quando vedevo i fondamenti dell’azienda andare in una direzione sempre più nuova… ho anche pensato fosse la crisi di mezza età di mamma.

Ha sempre avuto un buon naso ma io non ero sicuro fosse la strada giusta.

E invece…

 

Considero Elisabetta una grandissima visionaria. Chi è per te un visionario? Come vedi il tuo essere visionario nel futuro della Foradori

Un visionario è colui che con coraggio va controcorrente. Insegnamento che mi hanno sempre trasmesso i miei genitori. La visione che abbiamo noi oggi è diversa poiché naturalmente l’azienda è cambiata nel tempo. Prima di tutto noi siamo tre fratelli, non c’è più la visionaria ma i visionari.

Questo può essere un limite perché se lei ha potuto esprimersi in autonomia noi dobbiamo farlo rapportandoci l’uno con gli altri.

Io ho la fortuna di dividere il lavoro con mio fratello e mia sorella. Ognuno di noi ha un ruolo ben definito in cui abbiamo libertà quasi totale di movimento ma cercando un fine ultimo in un progetto comune e sapendo di poter contare reciprocamente l’uno sugli altri.

 

Ci sveli il progetto?

Il progetto si sta sviluppando a Brentonico. Abbiamo già piantato delle vigne e faremo una cosa totalmente diversa.

Non abbiamo piantato la classica barbatella ma il porta-innesto che andremo poi ad innestare quest’anno.

Dopo un enorme lavoro sulle varietà trentine e un’importante ricerca su cosa c’era prima della filossera ho scelto nuovi innesti: Vernazza, varietà a bacca bianca in assoluto più piantata nella Valle dell’Adige, Paolina, Verdealbara. In quella zona troviamo anche la cosiddetta bianchetta trevigiana, una parente molto vicino della Vernazza.

Pianteremo un vigneto che sarà dedicato al 70% alla Nosiola e per un 30% a queste altre varietà.

Pianteremo inoltre una vecchia selezione di Schiava.

A tutto ciò collegheremo una parte di ospitalità, per la quale abbiamo acquistato quattro immobili, avremo lo spazio perfetto per le nostre otto grigie alpine, con una sezione per la caseificazione.

Visionari vuol dire avere un progetto che nasce e che piano piano poi si sviluppa in maniera completa.

 

Le aziende, ormai, hanno adottato il sistema di fare tutto. Invece la vostra forza è quella di concentrare le energie su un unico vitigno: il Teroldego.

Come vedi il futuro di questo vitigno? 

Riesci a immaginare un futuro per un Teroldego sulla vostra stessa filosofia? 

Il Teroldego è una varietà alpina, con pochi tannini e tanta acidità percepita ma di fatto non è così.

Penso che quando si sa fare una cosa bene ci si deve impegnare a farla ancora meglio.

Fare il Teroldego strutturato, come quello che facevamo all’inizio, ha delle limitazioni. Il futuro a cui guardo io è quello di andare nel dettaglio, Morei e Sgarzon sono due perfetti esempi.

Andare maggiormente nel Cru e ascoltare la varietà.

L’idea è quella di fare un vino fuori dall’epoca, di creare un vino in parte ossidativo.

Nel 2017 abbiamo subìto una grande grandinata, è stato compromesso il raccolto e abbiamo dovuto fare macerazioni diverse, più leggere e corte. Nella sfortuna è nato Lezer. Anche questo è Teroldego, con un’anima più leggera e beverina, ma pur sempre Teroldego.

Il futuro del Teroldego è questo.

Siamo dieci produttori che portano avanti un discorso di zonazione e di qualità per far conoscere il vitigno, perché in realtà oltre i nostri confini è ancora poco conosciuto.

Nessun sommelier si alza la mattina pensando quale Teroldego mettere in carta. E questo dev’essere un obiettivo e un messaggio che può passare solo dai piccoli produttori, come noi.

 

Cosa significa per te essere un vignaiolo e che rapporto hai con la vigna? 

Essere vignaiolo vuol dire avere la possibilità di creare qualcosa partendo dalla natura.

Credo che il nostro sia l’ultimo settore a gestire veramente e completamente la filiera. Produco l’uva, la trasformo in vino e posso avere un feedback da parte del mio cliente. La considero una grande fortuna.

La vigna è la colonna portante del nostro lavoro, ma non è la sola. Ci sono anche la cantina, dove avviene la trasformazione, e la parte imprenditoriale.

Il rapporto con la vigna è basilare, è fondamentale e va curata.

Ho avuto la grande fortuna di ricevere in eredità delle vigne sane, grazie al metodo che è stato usato, soprattutto delle vigne con tanta diversità perché tutto il lavoro di selezione che lei ha fatto si traduce oggi in 40 biotipi di Teroldego.

Abbiamo perso molta biodiversità, ma ho ancora la fortuna di avere 15 ettari con delle vigne differenti che danno un frutto diverso in grado di esprimersi in maniera molto più forte. Essere vignaiolo vuol dire anche salvaguardare la biodiversità.

 

Se dovessi stappare una bottiglia o raccontare di un produttore che per te è un esempio, chi sceglieresti? 

Pingner. Lui è famoso per i suoi vini ossidativi e molto estremi. La Jura dal punto di vista internazionale è diventata la nuova Borgogna.

È un vino che dieci anni fa non si filava nessuno e ora lo trovi sulla carta dei vini di tutti i ristoranti “in” di Milano.

Ecco, loro per esempio hanno tenuto duro e hanno avuto la forza di rimanere vignaioli, impiantando nuovamente vecchie varietà, proseguendo per la loro strada, fiduciosi e generosi.

 

Parlami dell’uso dell’anfora. 

L’anfora è un contenitore che appartiene alla recente storia dell’azienda. Inizialmente io non ci andavo d’accordo, perché ha dei grandi alti e bassi: è un contenitore che esprime fortemente il potenziale del vino ma può creare molti problemi. Insomma, è uno strumento fantastico ma ci vuole tanta precisione e pazienza, essendo un contenitore che respira e che permette al vino di esprimere la sua originalità.

Non cerchiamo la perfezione ma l’armonia tra tannino e acidità, e questo strumento ci consente di esprimere l’unicità del prodotto al naturale.

 

 

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